Per questa riflessione (non la definirei proprio una recensione) sul nuovo libro di Giovanni Cocco ho deciso di rispolverare il titolo che avevo dato alla mia tesi di laurea, discussa nel lontano 1999.
Mi è sembrato appropriato per questo romanzo (per quanto catalogato come non fiction, o testo documentario, come viene definito nelle note finali) in cui l’autore si mette sulle tracce del regista francese, che sta alla storia del cinema come Rousseau Le Douaier sta alla storia dell’arte – entrambi hanno infatti avuto una carriera costellata di fallimenti e un riconoscimento postumo che ne ha decretato il suolo decentrato, eppure fondamentale, rispetto alla galassia delle avanguardie (che Rousseau ha ispirato e anticipato, laddove Vigo ha invece saputo sintetizzare e superare).
Per la voce narrante del libro, quella per il regista francese – non solo per la sua breve filmografia, ma anche per la sua biografia – è un’infatuazione diventata vera e propria ossessione, che lo porta a usare le sue vacanze (e quelle dei suoi famigliari) per ripercorrerne le orme nel sud della Francia, tra le vie di Nizza e Perpignan, dove non troviamo neanche una targa commemorativa, e poi nelle varie località in cui Vigo e la moglie Lydou avevano provato più volte a curare la loro cagionevole salute.
Tra i tanti saggi dedicati al cineasta, il protagonista scopre un tassello mancante, relativo agli anni della formazione del giovane Vigo, e così ottiene il permesso di visionare le carte private per provare a far luce su quella che sarebbe diventata la sua attitudine nei confronti del cinema e della vita. Questa è forse la parte più riuscita del libro (il nodo cruciale è il rapporto con la scuola e il sistema educativo dell’epoca), in cui l’oggetto dell’indagine (Jean Vigo) si sovrappone al suo osservatore (Giovanni Cocc), che nell’arco di tempo abbracciato dalla genesi del libro diventa padre di due figli e vince il concorso straordinario per entrare di ruolo a scuola, ritrovandosi costretto a sacrificare il suo progetto e relegandolo ai ritagli di tempo rosicchiati alla vita e al lavoro (non solo la scuola, ma anche la scrittura di romanzi di genere che nel frattempo finiscono in ristampa e richiedono lo sforzo per partorirne di nuovi). I problemi che si trova ad affrontare l’autore sono dunque quelli di tutti quegli scrittori che vivono fuori dalla bolla letteraria e che non passano le ore a guardarsi l’ombelico mentre scrivono, sforzandosi d’inventare qualche pelo incarnito in cui conficcare la loro penna pur di non restare senza argomenti. Giovanni Cocco si sovrappone qui a Jean Vigo perché ripercorre anch’egli il dramma (per quanto, per così dire, in tono minore rispetto a quello vissuto dal francese) di chi ha un’urgenza che deve continuamente posticipare, convivendo con la paura di non trovare il tempo per finire il proprio progetto e rischiare di abbandonarlo, incompiuto, e dovendo continuamente scegliere tra la vita e l’arte, in un continuo montaggio tra ciò che si può tenere e ciò che si deve imparare a lasciare andare.
La grandezza del regista francese, che l’autore sa qui cogliere tra le righe, è stata in fondo proprio quella di fare della censura un falso problema: anzi, guardando opere come Zéro de conduite e L’Atalante, si ha netta la percezione che i limiti imposti dall’esterno e tutti gli ostacoli che hanno rischiato più volte di mandare all’aria il suo lavoro, gli siano infine serviti per delimitare quella gabbia da cui Vigo, con la sua cinepresa, riesce sempre a farci evadere, non rinunciando mai né alla realtà né all’immaginario. Questa è probabilmente la magia che lo rende ancora oggi così moderno e che ha spinto Giovanni Cocco a ripercorrerne la storia per anni, fino a restituircela in un testo fatto di tagli e cesure, in un continuo andirivieni tra presente e passato, tra speranze e delusioni.
Questo documentario romanzato (mi si passi il termine), ha il pregio di permettere anche al lettore non specialistico di conoscere, senza perdersi al tempo stesso nel didascalico, un cineasta che riemerge continuamente dall’inconscio del cinema come il volto di Dita Parlo dalle acque del fiume; perché infine, mi sembra, il vero oggetto di studio di questo libro è l’amore, la nostra capacità di rappresentarlo nel tentativo di non lasciarcelo sfuggire: amore per il cinema, per la letteratura, per l’arte in generale, ma soprattutto amore per la vita e per i pochi affetti catturati, nel corso della nostra breve esistenza, dalle inquadrature che saprà costruire il nostro sguardo.