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Immagine e immaginario – Su Uomo nel buio di Paul Auster

L’estate, si sa, è la stagione preferita da chi ama far scoppiare le cosiddette polemiche letterarie. Sarà il caldo, o il fatto che in questi mesi si decidono le sorti dei maggiori premi letterari (lo Strega e il Campiello su tutti), oppure semplicemente il bisogno di riempire giornate più vuote del solito. Recentemente, tra le varie diatribe, un posto di rilievo se l’è guadagnato quella sull’autofiction, genere che da tempo si è imposto sulla scena letteraria e che quest’anno in particolare, se prendiamo come riferimento proprio i premi letterari, sembra aver scalzato definitivamente dai radar della letteratura la narrativa per così dire “pura” (quella che, semplificando, inventa storie anziché prendere spunto da fatti realmente accaduti, per quanto il sottoscritto non crede all’esistenza di due generi puri e che a cambiare è semmai la percentuale di finzione e realtà che vi si trova e il modo in cui esse vengono combinate).

Ma non è di questo che intendevo parlare, se non come spunto per fare alcune riflessioni su un autore che ho riletto (forse proprio perché stimolato da questa polemica estiva). Sto parlando di Paul Auster, e in particolare del suo Man in the Dark (Uomo nel buio, Einaudi, 2008), che mi pare abbia diverse cose da dire sulla questione fiction/non fiction.

La trama, in sintesi, è la seguente: il critico letterario August Brill passa le sue notti a combattere l’insonnia immaginando storie che lo tengano lontano dal pensiero dei propri drammi familiari; in casa con lui vivono la figlia Miriam, divorziata, e la nipote Katya, il cui ex fidanzato è stato giustiziato mesi prima da terroristi iracheni che hanno filmato l’esecuzione. Anziché onorare la promessa di scrivere la storia della propria famiglia, che Katya vorrebbe conoscere nei dettagli, August passa le ore a immaginare la storia di Owen Brick, un prestigiatore, catapultato dal nulla in un universo parallelo in cui gli Stati Uniti stanno combattendo una sanguinosa guerra civile che solo lui potrà fermare uccidendo colui che ha creato questa immane tragedia: lo scrittore August Brill.

Nelle poche pagine del romanzo (circa 150 nell’edizione italiana) Paul Auster affronta dunque il tema, centrale nella nostra epoca, del rapporto tra immagine e immaginario. Dopo aver realizzato che la storia di Brick è l’ultimo pezzo di una fantasiosa matrioska, il lettore scopre infatti che August e Katya passano il loro tempo diurno perlopiù guardando film e che hanno persino elaborato una loro personale teoria sul ruolo ricoperto in alcune pellicole dagli oggetti, che senza bisogno di parole forniscono una lettura più profonda del senso del film, dando forma alle emozioni provate dai protagoniti (ad esempio l’orologio nelle scene finali di Viaggio a Tokyo di Yasujirō Ozu). I due cercano nel cinema e nell’immaginario da esso costruito un modo per rielaborare il trauma delle immagini insensate, dove l’unico oggetto a “parlare” è la scure con cui viene massacrato il giovane Titus (che ha lo stesso nome dello sfortunato figlio di Rembandt, con cui condivide anche il rosso dei capelli e la disgrazia di morire troppo presto). Da una parte abbiamo dunque il crudo dato reale, che puro mai non è (il video dell’esecuzione ha comunque una sua scenografia, per quanto spoglia, e una segue una sceneggiatura; la storia di una famiglia, per quanto aderente alla biografia delle persone che la formano, è sempre anche la storia di un punto di vista che la racconta), dall’altra l’immaginazione, che del reale si nutre (Brill è sia colui che immagina che il personaggio immaginato, ed è probabilmente una specie di doppio dell’autore). Quello che in pratica fa Auster in questo romanzo, e che è una sorta di sua cifra stilistica, è raccontare, attraverso un chiaro procedimento metaletterario, il momento in cui la vita di chi scrive si biforca per diventare al tempo stesso reale (il corpo dell’autore, l’insieme dei segni che ha lasciato e che costituisce la propria biografia) e immaginaria (la mente che rielabora il vissuto e lo rende immaginario attraverso l’introduzione di nuovi elementi), in modo da raccontarci i possibili alternativi che solo l’arte può esplorare alla ricerca di un risarcimento, per quanto simbolico, di ciò che la realtà ci sottrae. Se prendiamo per buona questa mia interpretazione, non è secondario il fatto che Owen Brick rinunci a uccidere August Brill (anche se per lui è uno sconosciuto ed è il creatore di un mondo in cui milioni di americani stanno morendo per un suo capriccio), mentre nella realtà i terroristi mettono in scena un’esecuzione che portano fino in fondo perché la società di rifornimenti per cui lavora Titus, nonostante si riveli disposta al pagamento di un riscatto, si rifiuta di ritirarsi dal territorio iracheno e dunque da una guerra in cui è in qualche modo implicata. Se fino all’undici settembre 2001 si poteva dire che il cinema sembrava vero, con l’attacco alle Twin Towers e l’uso delle immagini che i terroristi ne hanno fatto dopo – si vedano in proposito Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema di Marco Dinoi (Le Lettere, 2008) e Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle BR a El Qaeda di Christian Uva (Rubbettino, 2008) – si è cominciato a guardare alla realtà come se fosse un film; ed è infatti dei film che Katya ha bisogno per tenere lontane quelle immagini, lo stesso motivo per cui August sente invece la necessità di raccontarsi storie. È forse l’unico modo per difendersi da quello che recita un verso di Rose Hawthorne, alla cui biografia sta lavorando da tempo Miriam: E il folle mondo viene avanti rotolando.

Sguardi incrociati

È uscito in libreria Sguardi incrociati. Cinema, testimonianza, memoria nel lavoro teorico di Marco Dinoi (EDS), a cura di Dimitri Chimenti, Massimiliano Coviello e Francesco Zucconi.

Il libro contiene le relazioni di un lungo seminario organizzato all’interno dell’Università degli Studi di Siena, che riprendono e danno continuità alle riflessioni che Marco Dinoi ha raccolto nel libro, pubblicato postumo nel 2008, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema (Le Lettere).

Il libro, che verrà presentato questa sera alla Sala Trevi di Roma, contiene anche un mio contributo dal titolo Cloverfield: il destino dello sguardo e della teoria dopo l’11 settembre.

Uno sguardo sull’11 settembre

«È l’evento nel suo ri-prodursi mediatico che Iñárritu ci presenta ingrandendo l’immagine di uno schermo televisivo, mostrandocene i pixel, mostrandoci in questo modo la mediazione in quanto tale, nella sua matericità elettronica, che quel giorno ci ha palesato l’immediatezza paradigmatica di una morte: è evidentemente il modo che il cineasta sceglie per indicare la singolarità della vittima senza attutirla o farla venir meno nel conteggio complessivo del massacro. Il secondo asse: nero come impossibilità di vedere veramente qualcosa prima che essa sia istantaneamente proiettata nell’immaginario (com’è accaduto per l’immagine globale dell’evento 11 settembre). Immaginario peraltro amputato: tutte le emittenti hanno mancato i corpi, che nella grande maggioranza dei casi sono stati occultati (…)»

Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze, 2008, p. 121.

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