Recentemente ho ritrovato il file di un vecchio romanzo (scritto intorno al 2004/2005 e che avevo intitolato L’anima del mondo è povera), da cui ho poi estratto una parte che ho rielaborato e che è stata pubblicata come racconto (intitolato Passaggi dagli sconosciuti) nella raccolta L’ora migliore (Il Foglio edizioni, 2011). Rileggendolo me ne sono vergognato un po’ (soprattutto per averlo mandato in lettura ad alcuni editori, tra cui sicuramente Minimum Fax), perché è pieno di luoghi comuni e di tanti errori tipici di un principiante. Se ho deciso però di renderne pubblica una piccola parte è proprio perché penso possa essere utile come esempio per chi si voglia approcciare alla scrittura.
Come potrete notare leggendolo, si capisce subito che la mia ambizione fosse quella di scrivere un romanzo cinematografico (all’epoca ero un dottorando in storia e critica del cinema): l’ambientazione del romanzo voleva un po’ ricreare le atmosfere alla David Lynch, mentre lo stile faceva un po’ il verso (un verso assolutamente sguaiato e ridicolo) a certi scrittori “maudit” che avevo da poco letto (Céline e Kerouac su tutti).
Quello che segue è l’incipit del capitolo 3, ovvero un campionario di tutte le scempiaggini da evitare quando si scrive una storia.
Leo non era nato bastardo, ma si vedeva che un po’ ci godeva quando tirava fuori dal suo borsello quei ritagli spiegazzati di giornale che lo condannavano senza mezzi termini. Erano la sua carta d’identità, stato: reietto. Non ricordo quante volte me li avrà letti, abbastanza da essermi stampato a mente ogni singolo carattere. La prima volta me sbatté in faccia non so quanti anni fa, dopo l’ennesimo naufragio nei mar rossi di tutti vitigni peninsulari, mentre onde acide che sbattevano contro la mia chiglia stomacata risalivano l’esofago in densi flutti.
“Li vedi questi?”, mi ripeteva con eccitazione sventolando la sua carta straccia per l’aria.
Ammetto che ci misi un po’ a capire cosa volesse. Dapprima scambiai quei ritagli per delle banconote, e l’idea di altro capitale da accumulare in calici di vetro sotto forma liquida esplose in immagini di nauseante delirio. In seguito temetti invece che volesse ricominciare con la solita sbobba di poesie, ché in quel periodo era il suo pallino scrivere in versi, e mi costringeva a rovinarmi gli occhi davanti a tenui fiammelle di candela, ma alla fine afferrai pezzi di frasi sul rispetto dei valori, e sulla famiglia società, e sull’educazione per questa generazione apatica e bla bla bla, e cercai di fermarmi e trovare un punto di equilibrio, mica facile a farsi, ma alla fine mi appoggiai a fuoco una delle tante linee ramificate che ne crepavano il cemento. Gli chiesi di ripartire da capo e lui non se lo fece ripetere due volte, sciorinando parole in fila senza smetterla di ondeggiare e poggiarsi ora su un piede ora su un altro, ed erano davvero sensazionali le balordaggini che potevano aver scritto tutti quei giornalisti!, beatamente a mollo nella tiepida zuppa sociopsicologica, sulle cui torbide acque veleggiavano, a loro dire, verso le primordiali origini delle cattive coscienze contemporanee.
“Ma che razza di storia è questa?”, gli chiesi, e poi ci andai giù duro a dargli dell’incosciente e irrispettoso figlio di puttana, ché non mi aveva mai raccontato niente, a me che definiva il suo miglior amico, che per anni e anni mi ero trascinato
solitario per le strade fredde e deserte dell’incomprensione e che avevo trovato in lui un compagno in cui provare finalmente della realtà del mio mondo. Adesso me lo diceva che agli occhi del mondo lui era criminale!, ma se ne rendeva conto delle volte che mi aveva fatto rischiare il gabbio ad accompagnarmi nelle mie incursioni ai limiti della legalità, e non solo me, ma tutti i compagni addirittura?!
E come al solito lui ci rise su, rosso di lentiggini anche in volto per via dell’escursione termica tra il freddo esterno e la vasodilatazione da alcool, e poi attaccò con una cantilena, ma ci pensi, eh?, diceva, ci pensi?, e mi dette del codardo e del borghese perché non facevo altro che predicare e basta, e lamentarmi anziché andar fiero di un criminale, un vero criminale al suo fianco invece di quelli battuti a macchina e martoriati sotto il giogo delle dita da Genet e da Céline e da Miller e da tutti gli altri autori che io adoravo e leggevo in continuazione.
Ne vogliamo ancora!
Ingordo! Eccoti qua un altro bocconcino saporito:
“Ho gli occhi arrossati per la stanchezza, due bottoni lucidi che mi tirano in su la pelle,
e un po’ di barba ispida di due giorni. Mi tocco dietro la nuca, per sentire se
lì non ci sia un rigonfiamento, un accumulo della materia che sembra mancare.
Questa faccia non può funzionare, mi dico, è tutta una via di mezzo, anche a causa
di questi capelli che si arricciano con l’umidità e non vanno da nessuna parte,
ma restano là appesi a non so cosa. Invece Leo, sicuro nel suo fisico da scopa
di saggina che si piega ma non si spezza mai e con i suoi
boccoli rossi da demone insonne, è già arrivato sotto la copertura con l’insegna della catena di ristorazione, e cammina veloce, troppo veloce per me,
finché non mi arrendo all’idea e gli corro dietro lasciandomi inghiottire dal ronzare dei giganteschi neon.”
Dire che basta così 😀