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Perché alla fine sono uscito da Facebook

Per il mio compleanno, che è il 12 novembre, quest’anno mi sono regalato una forma di libertà che per molti potrebbe significare una sorta di autoreclusione (ne avevo già parlato qualche anno fa sempre qui).

Per alcune generazioni, compresa la mia,  stare sui social – e in particolare su Facebook – è infatti diventata, più o meno sul finire degli anni Dieci del nuovo secolo, la normalità. Si è trattato di un vero e proprio cambio di paradigma – culturale e sociale – che ha coinvolto più di una generazione (grosso modo i nati tra gli anni Cinquanta e Novanta), all’interno del quale è maturata una profonda trasformazione delle nostre modalità comunicative e relazionali.

Facebook – un po’ come tutti i social, ma a mio parere in modo più profondo e pervasivo – è infatti un dispositivo che lavora sia sul piano spaziale che su quello temporale: ci permette ad esempio di ritrovare persone del nostro passato o di rintracciare quelle che vivono lontano da noi, con le quali condividere il nostro presente – gli affetti, il lavoro, i successi e i fallimenti, le gioie e i dolori. Si tratta senz’altro di una funzione positiva, che si porta però dietro una serie di effetti che noi tutti conosciamo: la sovraesposizione mediatica – ad esempio il proliferare incontrollato di foto di minori da esibire per avere dei feedback che nutrano il nostro bisogno di avere una vita invidiabile – e in generale il desiderio di essere al centro degli sguardi altrui, di sentire che diciamo o facciamo cose interessanti. Questo meccanismo funziona esattamente così anche per quelle bolle che si sentono al di sopra della massa: penso nello specifico a quella letteraria, di cui facevo, per quanto marginalmente, parte. Senza rendermene conto, utilizzavo un buona parte della mia energia mentale – della mia creatività – per elaborare ragionamenti che mi dessero l’illusione di essere al centro di qualcosa che definirei “discorso pubblico sulla letteratura”. È infatti indubbio che nel giro di pochi anni il ruolo della critica si sia ridimensionato al punto che essa ha cercato di riposizionarsi nello spazio virtuale della bolla, dove si è creata una sorta di indistinguibilità tra chi i libri li scrive e chi dovrebbe analizzarli e giudicarli. Questa confusione ha fatto sì che anche il linguaggio della critica, e i suoi strumenti, siano stati fatti ostaggio della dinamica aggressiva tipica dei social, dove si finisce per mettere al centro la persona – e gli attacchi ad essa – anziché l’opera.

Ecco, l’aggressività e la confusione che rende tutto indistinto nello scorrere continuo dei pensieri sono i motivi che mi hanno spinto a uscire, per quanto mi renda conto che questo possa significare scompare dai radar di quel dibattito pubblico che, per quanto residuale, rimbalza ancora tra blog e social, in un andirivieni del discorso che sempre più spesso ho visto fossilizzarsi sul singolo caso, quello che fa più odience e che porta, di conseguenza, maggiore visibilità.

Se sono uscito è proprio perché sono stanco delle polemiche, di sprecare le mie energie per stare sempre al passo di un dispositivo che produce e consuma contenuti senza veramente approfondirli: il che è proprio il contrario di ciò che dovrebbe fare la letteratura.